Arte del Tai Chi Quan Scuola di Tai Chi Bologna

“Il Tai Chi Chuan (太极拳) è prima di tutto rotondo come rotonda è la terra. Aprire e chiudere, kāi (开) e hé (合) sono alla base di ogni movimento. Rilassare è il modo per coltivare la forza. Il Tai Chi Chuan è Nèijiā (內家) Arte marziale interna.”

La ricerca del Gōng Fu dell’insegnare

Graziano Napoli | Notizie e eventi

Pubblicato il: 29 Giugno 2025

La ricerca del Gōng Fu dell’insegnare

A questo seminario purtroppo non ho potuto partecipare attivamente, però, nelle poche giornate che sono riuscito a venire, da seduto ho potuto osservare ed ascoltare gli insegnamenti e la pratica fatta dagli altri.
Sapendo già da prima di non poter praticare, sono andato con l’intenzione di prestare attenzione alle cose che il Maestro propone, così da ricordarle e poterle recuperare/studiare quando sarà il momento; e di osservarlo mentre insegna agli altri: non solo cosa propone, ma anche come lo propone e come lo “regola” in base ai vari partecipanti.
Questo perché, secondo me, il M° Hua ha due tipi di Gōng Fu (abilità):
1. Quello del Tài Jí Quán: ovvero le abilità che si sviluppano con quest’arte e che cerca di insegnarci.
2. Quello dell’insegnare: il modo in cui lo insegna.

Ho sempre visto il Maestro insegnare in questo modo: prima mostra a tutti quello che vuole insegnarci, quello che è l’obiettivo (il suo Gōng Fu del Tài Jí Quán), poi, mentre studiamo e riproviamo quello che ci ha proposto, passa da ognuno di noi a dare indicazioni personali.
È un po’ come se il metodo del Maestro non è mai: « Vedi cosa faccio io? Adesso devi farlo tu ». È più: « Guarda, questo è quello che io ho da insegnarti, il Gōng Fu della nostra scuola » ti mostra il movimento, te lo fa sentire e cerca di spiegartelo dandoti anche immagini visive o idee per comprenderlo; continuando con: « Adesso che l’hai visto, vediamo cosa hai capito e dove sei per sapere cosa ti serve o cosa puoi fare adesso ».

Queste indicazioni personali vengono date in base alla persona, quindi non bisogna guardarle e copiarle (quando il Maestro passa e spiega una cosa a qualcun altro, non bisogna cercare di fare quella cosa. Perché lui l’ha data a quella persona, a lei serve. Ad altri, potrebbe servire quella o servire un’altra. Conviene aspettare il proprio turno e concentrarsi su quello che ci dirà quando arriverà da noi); però, uno può provare a prestarci attenzione e cercare di comprenderle. Ovvero cercare di capire cosa passa all’allievo e perché glielo sta passando/facendo fare.
E capire questa cosa può aiutarci a sviluppare il Gōng Fu dell’insegnare.

Spessissimo mi sono sentito dire che « Imparare il Tài Jí Quán è come un percorso » e che bisogna fare un po’ attenzione perché « Ognuno ha il suo percorso » dato dalle differenze insite in ognuno di noi (le proprie inclinazioni e le proprie difficoltà, età, tipo di fisico, capacità motorie, infortuni, esperienze di vita, esperienze sportive, la propria mente e come essa apprende, analizza, visualizza, ecc.).
Ed allora, questa è una cosa in più che, noi che ricopriamo il compito di insegnare , dobbiamo imparare. Ovvero: Dobbiamo comprendere come riconoscere quale sia il punto in cui ogni allievo si trova e, in base a come egli è, come dargli il suo percorso personale (= come guidarlo attraverso la strada migliore per lui per arrivare al Tài Jí Quán).
Come fare ciò? La nostra tendenza a creare schemi di apprendimento, seguire regole e/o dettami di altri (Maestro, Gran Maestro, corso istruttori, libri, ecc.) è molto forte perché ci dà sicurezza. Ma questa “sicurezza” rischia di scontrarsi con la realtà di ciò che ci troviamo davanti: ovvero le persone.
Nel corso degli anni il Maestro ha dato indicazioni su come insegnare, alcune erano sì più “schematiche” come, per esempio , prima rilassare le mani, gli arti superiori, poi il busto fin giù alle anche e da lì fino ai piedi; altre erano più “inviti” al prestare attenzione all’altro e ciò che accade.
In questo seminario ci sono due esempi calzanti:
• Senza entrare troppo nel dettaglio della posizione studiata, spesso si sentono indicazioni su come tenere o mettere i piedi: girati con la punta in una determinata direzione, chiusi a 45° gradi, ecc. Ma riguardo a ciò, il Maestro ha detto che dipende da natura di persona e « prima cosa è importante che persona comoda »: alcune persone hanno, per natura e/o abitudine, i piedi molto aperti con le punte verso fuori. A queste persone, se gli fai chiudere troppo i piedi perché “si dice” o “c’è la regola” che devono essere più chiusi, rischi di fargli venir male alle ginocchia. Così come alcune persone, sempre per natura e/o abitudine, tengono i piedi con le punte verso dentro. Anche a loro, farglieli aprire molto, sarà scomodo e potrebbe fargli danneggiare le ginocchia o altre parti del corpo. Oltre a ciò, se si mette l’allievo in una posizione troppo innaturale per lui, lui non potrà mai stare “comodo” e se non può stare comodo, come gli si può dire di rilassare? Non potrà rilassarsi e lasciar andare se sta in una posizione in cui si sente tutto scomodo, bloccato e storto.
• Durante il seminario ha mostrato un movimento che ha applicato sia con emissione esplosiva della forza, sia con spinta più tranquilla. È partito col mostrarlo esplosivo (perché alcuni del gruppo sono più avanzati e devono lavorare sull’emettere la forza in quella maniera), ma poi ha visto che diversi si irrigidivano troppo nel tentativo di eseguirlo così ed allora ha subito fatto fare anche la versione con la spinta più “tranquilla”. Ha detto: « Tuī è spingere, Fā è emettere. Per fare Fā serve prima Tuī ».

Secondo me, da tali esempi possiamo cogliere che:
1. Bisogna osservare l’allievo e comprendere com’è (la sua natura, le sue abitudini, il suo modo d’essere e di fare);
2. Osservare gli effetti che produce ciò che si cerca di passare, senza paura di cambiarlo o tornare indietro se si nota che l’allievo non è pronto a recepirlo;
3. Individuare, nell’insieme di ciò che sta facendo, ciò che più gli serve (il Maestro gira da persona a persona e guardando come si muovono, cerca di individuare la cosa principale da correggergli).
4. Lasciare un certo grado di libertà nel ricercare e sperimentare quanto studiato, un certo lasciare che ognuno faccia esperienza “per conto suo” (credo che nel mostrare e dire la differenza e la progressione da Tuī a Fā, lui abbia anche voluto invitare gli allievi ad essere “responsabili” di sperimentarli entrambi e tentare di comprendere o riconoscere quale dei due devono studiare).

So che sarebbe piaciuto che scrivessi più esempi, formulassi percorsi di apprendimento e quant’altro; a tutti piacerebbe avere le certezze di uno schema di apprendimento. Tutti vorremmo avere l’informazione guida che ci dice passo dopo passo cosa fare: prima fai A poi B poi C e così via. Così come il “libricino guida” per risolvere i problemi: se succede Z fai E, se vedi G fai T. Ma purtroppo non funziona così, per lo meno non il Tài Jí Quán e non nel metodo del Maestro Hua.
Insegnare il Tài Jí Quán è come fare Tuī Shǒu con l’allievo: il Maestro dice spesso che « La forza viene da altro » e che « Si deve seguire altro ». Le abilità di sensibilità tattile: Tīng Jìn (Sentire la forza), Dǒng Jìn (Comprendere la forza) e Shén Míng (comprensione intuitiva).
Sono le abilità che, se sviluppate, ci consentono di conoscere l’altro
(l’avversario) e ci consentono di fare la cosa giusta al momento giusto e nel modo giusto. Il Tài Jí Quán marzialmente non è tecnica e controtecnica: non lo si studia ed applica con l’idea che se l’avversario mi fa questa cosa allora io reagisco con quest’altra cosa. Ovvero: se l’avversario fa A, io faccio B. Quando accade C, io faccio D. È tutto molto più “libero”.
Quando si fa bene Tuī Shǒu, è l’altro (l’avversario) che ti “dice” cosa devi fare (se devi assorbire, spingere, proiettare, entrare, questa o quest’altra tecnica, ecc.). Il quanto in fretta lo si capisce, dipende da quanto si è avanti nel percorso di sviluppo di queste 3 abilità.
Nella stessa maniera, anche quando si insegna bene è l’allievo che ti dice di cosa ha bisogno (se devi correggergli il movimento delle mani, dei piedi, raddrizzargli la schiena, abbassarlo o alzarlo, dove farlo rilassare, quale idea ed obiettivo dargli, quale interpretazione del movimento dargli, quale forza fargli studiare, ecc.). È come se si dovessero sviluppare le capacità di comprensione del corpo, del movimento e della mente dell’allievo.
Così come per il Tuī Shǒu bisogna seguire l’altro, cioè lasciarsi andare, andare dove vuole lui, ma essere noi a guidare (il nostro equilibrio, il nostro centro, la nostra stabilità e pienezza li manteniamo sempre. Vogliamo avere noi il controllo, senza che lui se ne accorga) come mi disse tanti anni fa il M° Hua: « Devi seguire forza di altro, ma altro deve seguire tua direzione »; anche nell’insegnare bisogna applicare i princìpi del Tuī Shǒu e seguire l’allievo guidandolo: « Bisogna seguire la sua forza (le sue tendenze personali e la sua strada personale), ma essere noi a guidarlo (per indirizzarle nel modo giusto verso lo sviluppo delle abilità del Tài Jí Quán) ».
E per comprendere se l’insegnamento che gli hai dato va bene, si deve valutare il suo cambiamento, se ne ha fatto uno, e se porta sufficientemente verso la direzione a cui puntiamo; senza paura di cambiarlo se non l’ha recepito o di eliminarlo se l’ha portato troppo “fuori strada”.
A me sembra che questo sia il metodo del M° Hua: lui ha ciò che ha sviluppato, il suo Gōng Fu, la conoscenza del suo percorso e, per il resto cerca di “adattarle” a ciò che ognuno di noi può avere e gli serve in questo momento. E questo non significa che non ti senti “stravolgere” dalle cose nuove e che non sei ancora in grado di fare. Alcuni seminari sono come una secchiata d’acqua ghiacciata, in cui ti sembra che “sia tutto cambiato”. Ma il Maestro cambia le cose solo nel momento giusto e ti lascia il tempo per sperimentarle.

Graziano

Arte del Tai Chi Quan stile Chen

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